lunedì 19 settembre 2011

Pensierino della sera

Guardando distrattamente Giuliano Ferrara in TV...ho capito; ho capito perché di tanto in tanto spunta qualche "scinziatopazzo" desideroso di estinguere l'umana razza con i missili "futonici".

martedì 13 settembre 2011


THIS IS NOT A FILM

10/09/11 – Il grido disperato di Panahi sulla privazione più atroce che un artista possa subire: esprimersi. Fuori concorso a Venezia 68.
Cosa resta di un artista deprivato della possibilità di esprimersi attraverso la sua arte? Con This is not a Film il regista iraniano Jafar Panahi vive e rappresenta per noi questo dramma con rabbia, frustrazione e un sano desiderio di ribellione. Dopo la proiezione a Cannes, il film è stato riproposto a distanza di pochi mesi a Venezia 68, un atto dovuto, un gesto importante da parte del festival lidense, che premiò il regista con il Leone d’Oro per il film Il cerchio, nell’ormai lontano 2000.
Condannato a 6 anni di reclusione e 20 di interdizione dal proprio lavoro, per aver girato un documentario sulle proteste contro la rielezione di Ahmadinejad, Panahi tenta l’impossibile: girare un film dagli arresti domiciliari rispettando l’assurdo e castrante divieto impostogli dal giudice.
Con un gesto disperato, il regista, filmato dal collega Mojtaba Mirtahmasb (anche lui inviso al regime), legge davanti alla macchina da presa alcuni lacerti della sceneggiatura di un suo nuovo progetto. Così ci ritroviamo di fronte a una sorta di “pitching”, ovvero un colloquio attraverso il quale ci viene di richiesto di produrre il film, non da un punto di vista finanziario, ma investendo in esso la nostra immaginazione. Produttori di immagini per una pellicola che non c’è, e che forse non ci sarà mai, con This is Not a Film viviamo dunque in prima persona il dramma più dolente spettatore abbia mai esperito. Sceneggiatura alla mano, Panahi ci illustra le scene, delimita nel suo soggiorno la location, ricorre ai filmati preliminari alla riprese, poi si blocca, afflitto da un’insopportabile sensazione di “falsità”. Maestro di un cinema che ricerca, senza compromessi, il nitore del vero, Panahi non riesce a stracciare quel velo di menzogna che la legge gli ha imposto, non sa e non può simulare. Dal momento che non può essere regista sposa dunque il ruolo di attore e ricerca alacremente, all’interno della sua filmografia, quegli istanti irripetibili in cui gli interpreti (in Oro rosso) o la scenografia (Il cerchio) sono diventati, per qualche istante, i veri registi del film. Ma il ruolo di attore non gli si addice, contribuisce solo a ricordargli quanto la legge lo abbia deprivato, oltre che del proprio lavoro, anche della sua identità.
Riflessione sul cinema e sulla verità, atto teorico e politico insieme, This is Not a Film è il primo “non film iraniano” che ci è dato vedere, ma non è l’unico.
Panahi si fa carico, infatti, di esprimere la frustrazione di quanti, come lui, si sono visti rifiutare del Governo, l’unico produttore cinematografico in Iran, la possibilità di lavorare. La realtà sopraggiunge comunque nella prigione domestica dell’autore, attraverso echi lontani delle proteste che in quei giorni (siamo nel marzo del 2009) accompagnavano le celebrazioni dell’annuale Festa del fuoco. Panahi si affaccia alla finestra e, riprendendo con il telefonino, cerca tra i palazzi uno spiraglio che possa mostrargli cosa sta avvenendo fuori, ma può coglierne solo echi lontani. Decide così di compiere un atto sovversivo. Quando infatti Mirtahmasb lo saluta per tornare a casa dalla sua famiglia, Panahi si ribella e imbraccia la sua arma: la macchina da presa. Ma è solo per ritrovarsi, giunto al portone del suo condominio, di fronte ad un ultimo ostacolo. Creare stando fermi, fare arte aspettando semplicemente che l’arte si manifesti da sé, è questa l’utopia, bellissima eppure terribile, con la quale più volte l’autore si scontra. This is Not a Film è una pellicola importante, sovversiva, dolorosa, che andrebbe mostrata in tutti i festival internazionali, contravvenendo al diktat dell’anteprima mondiale. Anche quello, infondo, di fronte al potere deflagrante dell’arte, è solo un altro assurdo divieto.

Frédéric Beigbeder


Una zanzara dura un giorno, una rosa dura tre giorni. Un gatto dura tredici anni, l'amore tre. È così. C'è prima un anno di passione, poi un anno di tenerezza e infine un anno di noia.
Frédéric BeigbederL'amore dura tre anni, 1997

La grande questione nella vita è il dolore che causiamo agli altri, e la metafisica più ingegnosa non giustifica l'uomo che ha lacerato il cuore che l'amava.
Frédéric BeigbederL'amore dura tre anni, 1997

mercoledì 7 settembre 2011

Quando Pippo prese il fucile

Se c’è una cosa che mi pesa negli ultimi anni è quella di vedere sempre più di rado i miei amici, e se c’è una cosa che odio della mia amata città e che spesso senza volerlo mi allontana da loro. L’impiego è la croce, restare è il peccato, l’amore è il crocifisso ed il dubbio è la lancia che ti buca il costato. Un giorno di Novembre, squilla il telefono. Come sempre premo il tastino verde del mio cellulare in maniera cosi veloce da non riuscire a scorgere sullo schermo il numero che mi chiama. La fretta la metterei in cima ad una potenziale lista di cose che odio, quindi un po’ mi odio. Dopo qualche secondo di perplessità, sento una persona piangere in linea, penso tra me e me: hanno sbagliato. La voce dall’altro lato della cornetta mi chiama per nome, non hanno sbagliato! Non mi hanno voluto neanche al 190, queste sono le prime parole che mi vengono dette in quella telefonata. Io penso: che cazzo è il 190? La voce continua dicendo parolacce ed inerpicandosi in architetture linguistiche dal sapore neoclassico, opere d’arte denigratoria, dell’offesa verso terzi e conclude dicendo: due mesi di corso, due mesi di corso, cazzo! Continuo a non riconoscere la voce, ma comincio a farmi un idea dell’argomento. Marco sono Pippo, continua la discussione in maniera strascicata quella voce rotta dal pianto. Ecco, scoperto l’arcano penso tra me e me. Sono felice di cominciare a trovare le quadrature della misteriosa quanto curiosa conversazione. Sentire un mio carissimo amico scomparso da qualche tempo è una gioia e soprattutto sono felice di aver capito di chi cavolo era quella voce mutata ed impastata dal pianto. Pippo è un mio amico di lungo corso, uno dei migliori per essere precisi, ragazzo brillante a scuola, non il migliore nei modi ma sicuramente l’intelligenza più viva della mia classe alle elementari. Negli anni avevamo scelto percorsi formativi diversi fin dalle superiori, ma non c’eravamo mai persi di vista. Complice della nostra amicizia una smodata passione di entrambi per la Paystation. In quattro abbiamo passato intere notti a massacrarci i pollici a Winning Eleven. Lui aveva scelto di studiare storia all’università, quindi anche lui rientrava a pieno titolo nella sempre più diffusa schiera dei “110 buoni motivi”, come li chiamo io. Tale definizione è la sintesi di una mia teoria sulle difficoltà di impiego per un laureato al sud, nel caso di Pippo credo che ne sarebbero bastati uno o due dei centodieci motivi per spiegarmi l’esito del suo fallimentare corso. Pippo continuava il suo sconnesso discorso dicendo che senza addurre motivazioni plausibili, avevano scartato due di loro su diciotto a questo fantomatico corso per un call-center di servizi Telecom, guarda caso gli unici due laureati. Io un idea sulle possibili motivazioni plausibili l’avevo, ma l’ho tenuta per me, è una di quelle contemplate nelle centodieci motivazioni di cui sopra, cioè, la motivazione numero due: il laureato ha ambizioni. Per molti datori di lavoro o come li chiamo io i “fustigatori d’ opportunità” gli ambiziosi danno fastidio, fanno domande e talvolta tirano in ballo i diritti. Pippo continuava lo sfogo, io un po’ ascoltavo ed un poco pensavo ad i cazzi miei. Il suo discorso era servito in una salsa dal sapore logoro e deja-vu, quelli della mia generazione possono capirmi e condividere con me la noia che si cela nell’ennesimo pianto di un amico per una delusione lavorativa, succede troppo spesso a troppe persone ed oltretutto io sono un pessimo confidente. Pensavo tra le altre cose a che fine aveva fatto Marco Predolin, il baffutissimo presentatore dopo l’incredibile successo del gioco delle coppie nella seconda metà degli anni ottanta e l’infame e mendace voce che girava tra i ragazzi dell’epoca che lo davano per morto di Aids, si era dato alla macchia della tv italiana. Non so perché mi sia venuto in mente Predolin, ma il pianto di Pippo che i baffi non ha, mi aveva fatto pensare a questo. Dopo aver attaccato, comincio a pensare che forse sia salutare per me vedere uno psicanalista. Pippo poco prima di attaccare minacciava d’ammazzarsi, quindi magari lo psicanalista lo prenoto per due. Io ovviamente non gli ho creduto, anche perche sono fermamente convinto che nell’aldilà non hanno la Playstation e soprattutto non è possibile giocare le nuove versioni del nostro videogioco di calcio preferito. Qualche giorno dopo la telefonata ho incrociato Pippo in un locale, beveva birra e sorrideva ad una biondina.

Blow up (Video progetto) musica di Salvatore Ferraro regia Mario Amura

domenica 4 settembre 2011

Ti dirò di quegli amici di Stefano Havana

Ti racconterò, un giorno, delle notti con gli amici, dei ritorni a casa sotto il limite di velocità, per non farci beccare, per non dover soffiare dentro un tubicino. Ti racconterò di quando urlavamo le canzoni in macchina per sopravvivere all’indecenza di un ricordo: ti prenderò da parte, con delicatezza, con un sottile virtuosismo da sala da ballo e ti racconterò dei gomiti che ci piantavamo nei fianchi quando passava una da otto e mezzo. Ti racconterò di quelle notti, ti racconterò del Filo Oscuro che ci teneva legati tutti quanti, ti dirò che quel certo mal di vivere era colpa tua e tu non capirai. Piegherai la testa da un lato in una maniera che so già mi piacerà e mi chiederai delucidazioni. Allora ti racconterò, quel giorno, delle notti con gli amici, le notti che s’allungavano insieme ai fari della macchina, ti farò entrare, per un momento solo, nei nostri abitacoli e tu ci sentirai parlare e scoprirai che tutto quel casino che stavamo facendo, lo stavamo facendo per te. Ti racconterò della nostra misoginia, delle nostre convinzioni antropologiche di superiorità, ti racconterò delle risate per la creatività delle bestemmie e tu mi darai un colpetto per dirmi: non si fa. Ti racconterò dei primi cassetti delle scrivanie, delle fotografie della Thailandia maledetta, ti racconterò della rabbia che ci siamo raccontati, tutti i giorni, prima di incontrarti, ti racconterò dei “perché” che ci siamo soffiati a vicenda, tra un commento calcistico e l’altro, perché gli amici questo fanno, passano di palo in frasca senza nemmeno rendersi conto del miracolo che stanno compiendo: gli amici si partoriscono a vicenda tutti i giorni. Si ridanno la vita a turno, ecco cosa fanno gli amici. Ti racconterò dei silenzi rotti da qualche stronzata puntuale e tu minimizzerai, dirai che anche tra voi donne è la stessa cosa e allora litigheremo, perché io sosterrò che l’amicizia è una cosa maschile, punto e basta, e tu replicherai che no, che le tue amiche, che le vostre cose, eccetera eccetera, e io proverò a chiuderti la bocca con un bacio, ma tu incrocerai le braccia e reciterai una parte, finché non accadrà qualcosa e finiremo con le lenzuola arrotolate nei pugni e i fiati corti. Ti racconterò, un giorno, di quelle notti lì, quando pensavamo che non ci sarebbe mai più stato un nuovo Amore. Ti racconterò, e tu riderai, dei significati che riuscivamo ad attribuire a un sondaggio di Facebook, dei segnali che leggevamo tutt’intorno; ti dirò di quando i bicchieri si svuotavano uno dopo l’altro e, sempre, puntualmente, il mondo diventava migliore, all’improvviso, come se sul vetro di quel fondo, ci fosse un varco segreto, un passaggio dimensionale, o che so io. Ti racconterò anche questo e tu storcerai le labbra, astemia del cazzo che non sarai altro, e rifiuterai per l’ennesima volta il mio tentativo di iniziazione. Un giorno te lo racconterò, tutto questo, magari seduti da una parte, o che ne so, vallo a dire dove il futuro ci vorrà piazzare; ti dirò i nomi dei miei amici, di quegli amici lì, che sanno stare zitti quando è il caso. Sarà come un appello senza assenti. Ti racconterò del Male che ci siamo fatti, del piacere del dolore, della consistenza di questa maledizione. Ti racconterò dei Montenegro con ghiaccio nei bar di quart’ordine, tra metronotte, cocainomani e rock star stonate; ti racconterò dell’eleganza con cui accettavamo la considerazione che tutti i nostri passati amori fossero andati a stare Meglio, senza noi. Ti racconterò delle occasioni andate perse per l’abitudine al dolore: proverò a spiegarti che un uomo, dopo un po’ che zoppica, va a finire che gli piace. Ti dirò di quegli amici e delle notti che ci capitava di passare insieme. Ti racconterò di noi e tu mi dirai basta, basta così, ci sono io qui adesso, e semmai ti crederò, finché non finirai, anche tu, dentro il primo cassetto della scrivania o nel fondo di un bicchiere. Ma andrà bene così, andrà bene così e saliremo in macchina e rallenteremo pensando che sia per sfuggire agli sbirri, mentre invece sarà l’ennesima scusa trovata per tardare il ritorno e l’impatto coi nostri pensieri e tutto quanto il resto

sabato 3 settembre 2011

Woody Allen



Fui buttato fuori dall'università al primo anno. Mi scoprirono mentre copiavo allo scritto di metafisica. Sbirciavo nell'anima del mio vicino.

(Cit. Woody Allen )

giovedì 1 settembre 2011

Lampadine fulminate (estratto dal nuovo libro Gli Spietati)


Quando non ci sarà più posto all'inferno, i morti cammineranno sulla terra.
(Cit. dal film “Zombie” di George A.Romero)

L’iride dei miei occhi sembra paralizzata, non si contrae. Come una serie di lampadine di natale rotte, come un cuore che non pulsa, come una canzone d’amore che non commuove nessuno, i miei occhi sembrano non rispondere agli stimoli esterni. Non esistono contratti di garanzia per il nostro corpo, la linea è umana, la curva divina. Bisognerebbe custodire con gelosia e rispetto il nostro involucro terreno, rispettarci è una inderogabile priorità. Non esistono centri assistenza: la merce rotta non si cambia. Le fibre muscolari che circondano la pupilla non riescono ad opporsi e proteggermi dai forti colori di questa mattina. La luce penetra nei miei occhi aperti da pochi attimi, sono invasa da un bianco disturbante, violata, penso a mia madre. La luce senza bussare e senza pietà entra fino al centro del mio cervello, brucia i dati, cancella me e quello che ero stata. Arresa, cerco di ergere un ultimo baluardo. D’istinto porto una mano davanti al viso, devo fare ombra, in un goffo tentativo cerco di coprire il sole. Il fuoco del sapere, la luce della conoscenza, accolgo in me senza piacere un candido vuoto. La confusione più totale mi assale, cosa ci faccio qui? Sono distesa in un posto che non conosco, sono persa in un attimo di panico. Stringo gli occhi, batto le palpebre, cerco di guardare bene la mia mano, è cosi bianca, ricorda il colore di una bambola di ceramica: una bambola rotta. Piano, riesco ad abituarmi alla luce, riesco a vedere le vene che tracciano traiettorie lungo il mio palmo. I capillari sono fioriti sulla superficie della mia cute, le vene si fanno spazio sotto pelle, si intersecano nervose, si aggrovigliano e si sciolgono in plastiche forme, non sono mai state cosi visibili, mi tornano in mente le mani di mio nonno. Da bambina amavo i coni gelato, amavo particolarmente quelli al limone venduti per strada  sui carretti, vorrei tornare al mare con i miei genitori, vorrei rivivere l’estate dell’novantotto. Mi sembra tutto cosi lontano, mi sembra tutto cosi remoto, mi sembra tutto cosi impossibile, non sono mai stata molto brava a pensare a ritroso, tantomeno posso definirmi malinconica. Sono pallida, sembro triste, una ragazza sbattuta in fondo ad una scarpata, una donna gettata come immondizia, tra l’immondizia. Sono: un cadavere, una carcassa che aspetta sciacalli ed avvoltoi, forse sono morta e lo scoprirò a breve, tra le urla ed i pianti di chi mi vuol  bene. Forse sbaglio, oppure credo di farlo, sono viva o qualcosa di simile all’esistere ancora, uno stato ibrido, inumano. Constato la consistenza dei mie pensieri mordendomi il labbro superiore, sento lo spessore tra i miei denti, ma nient’altro. Nessun dolore percepito dal mio cervello, nessun messaggio ad avallare l’una o l’altra tesi, mordo con forza e non sento nulla. Oggi davanti a me si è spalancata una porta, oggi io non sono più io, oggi mi dico addio, abbandono il mio vecchio essere, ho la sensazione di galleggiare in un limbo extraterreno. Pensieri sconclusionati si rincorrono nella mia testa, tirano i miei capelli, un pessimismo cosmico prova a farmi lo scalpo, tutto in silenzio e senza dolore.  Perché sono distesa e bagnata sul fondo di una scarpata? Ieri cosa è successo? Provo a fare spazio, come una bambina che cammina a braccia tese nel buio di un corridoio, provo a farmi spazio nella selva e tra le macerie di quelle che furono  le mie consapevolezze. Taglio e scavo, cerco tracce. Lo sforzo preme e pulsa sulle meningi,  l’encefalo e il midollo spinale sono in pericolo. Una luce rossa si accende, provo sconforto, non so se ho più tanta voglia di capire cosa mi sia realmente accaduto. Dimenticare tutto forse mi farebbe bene,  l’unico modo per tornar serena, il solo modo per riconciliarmi alla vita. Il folle desiderio dura un attimo, la volontà di sapere vince su tutto, deformazioni umane. Tutto scorre, questo no. Anche a costo di rompere me, voglio ricordare; continuo ad incastrare cocci. Il prezzo che si paga subendo del male è assorbire quel male senza volerlo, mescolarlo inconsciamente al proprio essere contaminando sempre più la propria anima, non ricordo, ma sono sicura che qualcuno ieri è riuscito nel suo perfido intento. Lentamente nella mia testa, pian piano fluiscono immagini come un esile fiume in un arido letto, con dolore e sgomento rielaboro i primi frammenti dell’accaduto. Il vuoto di memoria non è proporzionale al vuoto della mia anima, non so ancora bene cosa sia successo, ma so cosa ha prodotto in me. Il disprezzo verso la natura dell’uomo cresce, non riesco a credere a quel che è successo, comincio a ricomporre un fotogramma alla volta quel che ho vissuto dopo le ventidue della notte scorsa. Ricordo i fumi della battaglia, i sassi e le urla, ricordo gli occhi in fiamme per i lacrimogeni, il mio viso invaso dal pianto. Ieri era l’inferno in terra o almeno lo era per i miei giovani ed increduli occhi. Per chi non c’era, è difficile spiegare cosa sia successo a Terzigno, è difficile commentare quanto poco valga la finta morale dietro la quale tutti ci facciamo scudo. Aggrondo la fronte, digrigno i denti, li faccio scivolare uno su l’altro cercando dolore: ho fame.