giovedì 1 settembre 2011

Lampadine fulminate (estratto dal nuovo libro Gli Spietati)


Quando non ci sarà più posto all'inferno, i morti cammineranno sulla terra.
(Cit. dal film “Zombie” di George A.Romero)

L’iride dei miei occhi sembra paralizzata, non si contrae. Come una serie di lampadine di natale rotte, come un cuore che non pulsa, come una canzone d’amore che non commuove nessuno, i miei occhi sembrano non rispondere agli stimoli esterni. Non esistono contratti di garanzia per il nostro corpo, la linea è umana, la curva divina. Bisognerebbe custodire con gelosia e rispetto il nostro involucro terreno, rispettarci è una inderogabile priorità. Non esistono centri assistenza: la merce rotta non si cambia. Le fibre muscolari che circondano la pupilla non riescono ad opporsi e proteggermi dai forti colori di questa mattina. La luce penetra nei miei occhi aperti da pochi attimi, sono invasa da un bianco disturbante, violata, penso a mia madre. La luce senza bussare e senza pietà entra fino al centro del mio cervello, brucia i dati, cancella me e quello che ero stata. Arresa, cerco di ergere un ultimo baluardo. D’istinto porto una mano davanti al viso, devo fare ombra, in un goffo tentativo cerco di coprire il sole. Il fuoco del sapere, la luce della conoscenza, accolgo in me senza piacere un candido vuoto. La confusione più totale mi assale, cosa ci faccio qui? Sono distesa in un posto che non conosco, sono persa in un attimo di panico. Stringo gli occhi, batto le palpebre, cerco di guardare bene la mia mano, è cosi bianca, ricorda il colore di una bambola di ceramica: una bambola rotta. Piano, riesco ad abituarmi alla luce, riesco a vedere le vene che tracciano traiettorie lungo il mio palmo. I capillari sono fioriti sulla superficie della mia cute, le vene si fanno spazio sotto pelle, si intersecano nervose, si aggrovigliano e si sciolgono in plastiche forme, non sono mai state cosi visibili, mi tornano in mente le mani di mio nonno. Da bambina amavo i coni gelato, amavo particolarmente quelli al limone venduti per strada  sui carretti, vorrei tornare al mare con i miei genitori, vorrei rivivere l’estate dell’novantotto. Mi sembra tutto cosi lontano, mi sembra tutto cosi remoto, mi sembra tutto cosi impossibile, non sono mai stata molto brava a pensare a ritroso, tantomeno posso definirmi malinconica. Sono pallida, sembro triste, una ragazza sbattuta in fondo ad una scarpata, una donna gettata come immondizia, tra l’immondizia. Sono: un cadavere, una carcassa che aspetta sciacalli ed avvoltoi, forse sono morta e lo scoprirò a breve, tra le urla ed i pianti di chi mi vuol  bene. Forse sbaglio, oppure credo di farlo, sono viva o qualcosa di simile all’esistere ancora, uno stato ibrido, inumano. Constato la consistenza dei mie pensieri mordendomi il labbro superiore, sento lo spessore tra i miei denti, ma nient’altro. Nessun dolore percepito dal mio cervello, nessun messaggio ad avallare l’una o l’altra tesi, mordo con forza e non sento nulla. Oggi davanti a me si è spalancata una porta, oggi io non sono più io, oggi mi dico addio, abbandono il mio vecchio essere, ho la sensazione di galleggiare in un limbo extraterreno. Pensieri sconclusionati si rincorrono nella mia testa, tirano i miei capelli, un pessimismo cosmico prova a farmi lo scalpo, tutto in silenzio e senza dolore.  Perché sono distesa e bagnata sul fondo di una scarpata? Ieri cosa è successo? Provo a fare spazio, come una bambina che cammina a braccia tese nel buio di un corridoio, provo a farmi spazio nella selva e tra le macerie di quelle che furono  le mie consapevolezze. Taglio e scavo, cerco tracce. Lo sforzo preme e pulsa sulle meningi,  l’encefalo e il midollo spinale sono in pericolo. Una luce rossa si accende, provo sconforto, non so se ho più tanta voglia di capire cosa mi sia realmente accaduto. Dimenticare tutto forse mi farebbe bene,  l’unico modo per tornar serena, il solo modo per riconciliarmi alla vita. Il folle desiderio dura un attimo, la volontà di sapere vince su tutto, deformazioni umane. Tutto scorre, questo no. Anche a costo di rompere me, voglio ricordare; continuo ad incastrare cocci. Il prezzo che si paga subendo del male è assorbire quel male senza volerlo, mescolarlo inconsciamente al proprio essere contaminando sempre più la propria anima, non ricordo, ma sono sicura che qualcuno ieri è riuscito nel suo perfido intento. Lentamente nella mia testa, pian piano fluiscono immagini come un esile fiume in un arido letto, con dolore e sgomento rielaboro i primi frammenti dell’accaduto. Il vuoto di memoria non è proporzionale al vuoto della mia anima, non so ancora bene cosa sia successo, ma so cosa ha prodotto in me. Il disprezzo verso la natura dell’uomo cresce, non riesco a credere a quel che è successo, comincio a ricomporre un fotogramma alla volta quel che ho vissuto dopo le ventidue della notte scorsa. Ricordo i fumi della battaglia, i sassi e le urla, ricordo gli occhi in fiamme per i lacrimogeni, il mio viso invaso dal pianto. Ieri era l’inferno in terra o almeno lo era per i miei giovani ed increduli occhi. Per chi non c’era, è difficile spiegare cosa sia successo a Terzigno, è difficile commentare quanto poco valga la finta morale dietro la quale tutti ci facciamo scudo. Aggrondo la fronte, digrigno i denti, li faccio scivolare uno su l’altro cercando dolore: ho fame.

Nessun commento:

Posta un commento