mercoledì 21 dicembre 2011

Needle in the Hay

Your hand on his arm 
The hay stack charm around your neck 
Strung out and thin 
Calling some friend trying to cash some check 
He's acting dumb 
That's what you've come to expect 
Needle in the hay 
Needle in the hay 
Needle in the hay 
Needle in the hay 
He's wearing yr clothes 
Head down to toes a reaction to you 
You say you know what he did 
But you idiot kid 
You don't have a clue 
Sometimes they just get caught in the eye 
You're pulling him through 
Needle in the hay 
Needle in the hay 
Needle in the hay 
Needle in the hay 
Now on the bus 
Nearly touching this dirty retreat 
Falling out 6th and powell a dead sweat in my teeth 
Gonna walk walk walk 
Four more blocks plus one in my break 
Down downstairs to the man 
He's gonna make it all ok 
I can't beat myself 
I can't beat myself 
And I don't want to talk 
I'm taking the cure so I can be quiet 
Whenever I want 
So leave me alone 
You ought to be proud that I'm getting good marks 
Needle in the hay 
Needle in the hay 
Needle in the hay 
Needle in the hay



venerdì 4 novembre 2011

WE ARE WHAT WE ARE (Un film da vedere)

WE ARE WHAT WE ARE

Jorge Grau dirige una riflessione lucida e aberrante sulla famiglia e sulle sue contraddizioni: tra violenze tribali e rituali cannibalici, Somos lo que hay, titolo originale del film, fa il verso all’horror senza rinunciare al coté sociale.
Una famiglia di cannibali miete le proprie vittime nelle periferie più disperate dell’America Latina. Quando il capofamiglia muore, la moglie e i tre figli dovranno continuare la tradizionale caccia all’uomo. Non sarà semplice, anche e soprattutto per le rivalità tra fratelli (uno burbero e violento, l’altro riflessivo e accomodante) che, in periodo di interregno, scoppieranno violentemente mettendoli l’uno contro l’altro. Soltanto la sorella Sabina saprà prendere in mano la situazione, gestendo l’incipiente nevrastenia della madre e le ripicche tra i due contendenti. 



L’inizio di We are what we are è folgorante, un capolavoro di rigore concettuale e formale. Un uomo anziano e disperato, un vagabondo, vestiti sdruciti e sguardo da pazzo, trascorre le giornate a fissare le vetrine dei centri commerciali. Quando vede la propria faccia riflessa sul vetro, un volto grottesco e sdentato, annebbiato da una follia impaurita e tremebonda, è preso dal panico e comincia a fuggire. Corre, urta i passanti, incespica, dopo di che cade a terra sconvolto dalle convulsioni. I fantasmi della sua vita l’hanno ormai raggiunto e consumato. A quel punto entrano in scena gli addetti alle pulizie che, con i loro spazzoloni, i carrelli e i detersivi, rimuovono il corpo disteso al suolo. La gente passa, gli acquirenti acquistano, i consumatori consumano. Ignari di tutto, come se nulla fosse successo veramente.
 
La famiglia è al centro di tutto: la necessità di sopravvivenza spinge due fratelli a lottare per il ruolo di capofamiglia, con quello che ne consegue, il potere, il dominio assoggettante sugli altri membri, la responsabilità di dover cacciare e uccidere. Non che nessuno dei due si tiri indietro, eppure le metodiche impiegate sono talmente contraddittorie che la conciliazione tra le parti è soltanto l’illusione di chi crede che niente sia cambiato. Alfredo (Francismo Barreiro) è uno con la testa sulle spalle, intelligente, giudizioso, pensa sempre prima di agire. È lui che tiene a bada il fratello, Julian (Alan Chávez), un pazzo scatenato che in una scena rapisce e massacra di botte una prostituta, con così tanti testimoni che l’intervento della polizia è scontato. E poi la sorella Sabina (Paulina Gaitan), ragionevole come Alfredo ma sottilmente spietata come Julian, capacissima di mediare tra rapporti conflittuali che, in una complessa relazione triangolare di affetti e ritorsioni, coinvolgono i fratelli e vertono sulla madre. La quale, già in contrasto col marito, scarica su Alfredo la propria rabbia, parteggiando per il rivale, figliolo prediletto e vezzeggiato. Anche Julian se la prende con Alfredo, perché troppo onesto e assennato, e se non fosse per Sabina l’ira divamperebbe senza controllo.
 
Purtroppo quando c’è da compiere il “rituale” i dissidi si fanno insanabili: Julian porta a casa una meretrice, ma siccome il padre era un puttaniere la madre non ne vuole sapere. Così ammazza la donna e la scarica in mezzo a una strada, di fronte agli stessi testimoni del rapimento. E quando Alfredo recupera un omosessuale, è Julian che rifiuta la preda perché lui “non mangia i froci”. Il punto di non ritorno è raggiunto, la lotta intestina avrà esiti fratricidi.
 
Il film di Grau, messicano con diversi corti in curriculum, è indefinibile dal punto di vista dei generi: non è un horror, non è un film a tematica sociale, quanto una sorta di sintesi oppiacea e nebulosa tra i due estremi. Mantenendosi a debita distanza dalla storia, dalla narrazione, dal suo viluppo di trame e sottotrame, il regista studia come un entomologo i suoi personaggi e le loro stranianti relazioni. Senza dare giudizi, senza fornire chiavi di lettura o modelli valutativi. Grau è una divinità onnisciente che in fin dei conti non intercede per le sue creature, e della cui bontà è forse lecito dubitare.

                                                                                                                          
                                                                                    Marco Marchetti          Fonte www.Nocturno.it

Libertà

Non lo sono e forse non lo sarò mai, ma se dovesse succedere saprei cosa fare; libertà concettuale.

giovedì 20 ottobre 2011

Domenica 30 ottobre, tutti allo "Square"

Domenica 30 ottobre 2011 allo "Square" di Sorrento c'è un simpatico pomeriggio d'incontri con giovani scrittori campani. Si parlerà di progetti, libri pubblicati ed in corso di pubblicazione, della realtà editoriale italiana (assurda) ed io farò il mio solito breve intervento, durante il pomeriggio presenterò ( ancora una volta ) il mio libro "La morte del disincanto". Per chiunque abbia voglia di passare (intervenire), il locale è questo qui...

L'appuntamento è per  Domenica 30 ottobre 2011 alle ore 16.30

http://www.massimotaurmino.com/2011/04/square-sorrento/

lunedì 3 ottobre 2011

Genio moderno: Gianfranco Marziano

Vasco Rossi è rock&roll...!?

Dal sito "Corriere della sera.it"


La rete non è più così affascinante, se gli altri si mettono a discettare liberamente di te. Così Vasco deve aver pensato quando i suoi avvocati, nell'aprile del 2010 hanno contattato i responsabili di Nonciclopedia per chiedere la rimozione della pagina dedicata al loro assistito. Per chi non lo sapesse, Nonciclopedia è un sito che fa un po' il verso a Wikipedia. Ovvero scrive biografie del tutto scherzose e inventate su personaggi celebri e meno celebri. Vasco, a differenza di altri presi di mira, non ha gradito.
AUTOSOSPENSIONE - Da Nonciclopedia raccontano di aver contattato più volte i legali del Blasco Nazionale, comunicando loro di esser disposti a eliminare le parti diffamatorie della pagina. Ma nessuna risposta: gli unici che si son fatti sentire sono gli agenti della polizia postale che hanno convocato gli amministratori del sito. Per evitare di incorrere in guai più seri, una querela per diffamazione costa caro, questi hanno deciso di sospendere il sito. Non senza «ringraziare» Vasco, come si si vede nella sua home page. E i fan di Nonciclopedia, meno numerosi di quelli del rocker, ma altrettanto agguerriti, si stanno vendicando: inondando a loro volta la pagina Facebook di Vasco con commenti non proprio urbani. La libertà è anche questa.

lunedì 19 settembre 2011

Pensierino della sera

Guardando distrattamente Giuliano Ferrara in TV...ho capito; ho capito perché di tanto in tanto spunta qualche "scinziatopazzo" desideroso di estinguere l'umana razza con i missili "futonici".

martedì 13 settembre 2011


THIS IS NOT A FILM

10/09/11 – Il grido disperato di Panahi sulla privazione più atroce che un artista possa subire: esprimersi. Fuori concorso a Venezia 68.
Cosa resta di un artista deprivato della possibilità di esprimersi attraverso la sua arte? Con This is not a Film il regista iraniano Jafar Panahi vive e rappresenta per noi questo dramma con rabbia, frustrazione e un sano desiderio di ribellione. Dopo la proiezione a Cannes, il film è stato riproposto a distanza di pochi mesi a Venezia 68, un atto dovuto, un gesto importante da parte del festival lidense, che premiò il regista con il Leone d’Oro per il film Il cerchio, nell’ormai lontano 2000.
Condannato a 6 anni di reclusione e 20 di interdizione dal proprio lavoro, per aver girato un documentario sulle proteste contro la rielezione di Ahmadinejad, Panahi tenta l’impossibile: girare un film dagli arresti domiciliari rispettando l’assurdo e castrante divieto impostogli dal giudice.
Con un gesto disperato, il regista, filmato dal collega Mojtaba Mirtahmasb (anche lui inviso al regime), legge davanti alla macchina da presa alcuni lacerti della sceneggiatura di un suo nuovo progetto. Così ci ritroviamo di fronte a una sorta di “pitching”, ovvero un colloquio attraverso il quale ci viene di richiesto di produrre il film, non da un punto di vista finanziario, ma investendo in esso la nostra immaginazione. Produttori di immagini per una pellicola che non c’è, e che forse non ci sarà mai, con This is Not a Film viviamo dunque in prima persona il dramma più dolente spettatore abbia mai esperito. Sceneggiatura alla mano, Panahi ci illustra le scene, delimita nel suo soggiorno la location, ricorre ai filmati preliminari alla riprese, poi si blocca, afflitto da un’insopportabile sensazione di “falsità”. Maestro di un cinema che ricerca, senza compromessi, il nitore del vero, Panahi non riesce a stracciare quel velo di menzogna che la legge gli ha imposto, non sa e non può simulare. Dal momento che non può essere regista sposa dunque il ruolo di attore e ricerca alacremente, all’interno della sua filmografia, quegli istanti irripetibili in cui gli interpreti (in Oro rosso) o la scenografia (Il cerchio) sono diventati, per qualche istante, i veri registi del film. Ma il ruolo di attore non gli si addice, contribuisce solo a ricordargli quanto la legge lo abbia deprivato, oltre che del proprio lavoro, anche della sua identità.
Riflessione sul cinema e sulla verità, atto teorico e politico insieme, This is Not a Film è il primo “non film iraniano” che ci è dato vedere, ma non è l’unico.
Panahi si fa carico, infatti, di esprimere la frustrazione di quanti, come lui, si sono visti rifiutare del Governo, l’unico produttore cinematografico in Iran, la possibilità di lavorare. La realtà sopraggiunge comunque nella prigione domestica dell’autore, attraverso echi lontani delle proteste che in quei giorni (siamo nel marzo del 2009) accompagnavano le celebrazioni dell’annuale Festa del fuoco. Panahi si affaccia alla finestra e, riprendendo con il telefonino, cerca tra i palazzi uno spiraglio che possa mostrargli cosa sta avvenendo fuori, ma può coglierne solo echi lontani. Decide così di compiere un atto sovversivo. Quando infatti Mirtahmasb lo saluta per tornare a casa dalla sua famiglia, Panahi si ribella e imbraccia la sua arma: la macchina da presa. Ma è solo per ritrovarsi, giunto al portone del suo condominio, di fronte ad un ultimo ostacolo. Creare stando fermi, fare arte aspettando semplicemente che l’arte si manifesti da sé, è questa l’utopia, bellissima eppure terribile, con la quale più volte l’autore si scontra. This is Not a Film è una pellicola importante, sovversiva, dolorosa, che andrebbe mostrata in tutti i festival internazionali, contravvenendo al diktat dell’anteprima mondiale. Anche quello, infondo, di fronte al potere deflagrante dell’arte, è solo un altro assurdo divieto.

Frédéric Beigbeder


Una zanzara dura un giorno, una rosa dura tre giorni. Un gatto dura tredici anni, l'amore tre. È così. C'è prima un anno di passione, poi un anno di tenerezza e infine un anno di noia.
Frédéric BeigbederL'amore dura tre anni, 1997

La grande questione nella vita è il dolore che causiamo agli altri, e la metafisica più ingegnosa non giustifica l'uomo che ha lacerato il cuore che l'amava.
Frédéric BeigbederL'amore dura tre anni, 1997

mercoledì 7 settembre 2011

Quando Pippo prese il fucile

Se c’è una cosa che mi pesa negli ultimi anni è quella di vedere sempre più di rado i miei amici, e se c’è una cosa che odio della mia amata città e che spesso senza volerlo mi allontana da loro. L’impiego è la croce, restare è il peccato, l’amore è il crocifisso ed il dubbio è la lancia che ti buca il costato. Un giorno di Novembre, squilla il telefono. Come sempre premo il tastino verde del mio cellulare in maniera cosi veloce da non riuscire a scorgere sullo schermo il numero che mi chiama. La fretta la metterei in cima ad una potenziale lista di cose che odio, quindi un po’ mi odio. Dopo qualche secondo di perplessità, sento una persona piangere in linea, penso tra me e me: hanno sbagliato. La voce dall’altro lato della cornetta mi chiama per nome, non hanno sbagliato! Non mi hanno voluto neanche al 190, queste sono le prime parole che mi vengono dette in quella telefonata. Io penso: che cazzo è il 190? La voce continua dicendo parolacce ed inerpicandosi in architetture linguistiche dal sapore neoclassico, opere d’arte denigratoria, dell’offesa verso terzi e conclude dicendo: due mesi di corso, due mesi di corso, cazzo! Continuo a non riconoscere la voce, ma comincio a farmi un idea dell’argomento. Marco sono Pippo, continua la discussione in maniera strascicata quella voce rotta dal pianto. Ecco, scoperto l’arcano penso tra me e me. Sono felice di cominciare a trovare le quadrature della misteriosa quanto curiosa conversazione. Sentire un mio carissimo amico scomparso da qualche tempo è una gioia e soprattutto sono felice di aver capito di chi cavolo era quella voce mutata ed impastata dal pianto. Pippo è un mio amico di lungo corso, uno dei migliori per essere precisi, ragazzo brillante a scuola, non il migliore nei modi ma sicuramente l’intelligenza più viva della mia classe alle elementari. Negli anni avevamo scelto percorsi formativi diversi fin dalle superiori, ma non c’eravamo mai persi di vista. Complice della nostra amicizia una smodata passione di entrambi per la Paystation. In quattro abbiamo passato intere notti a massacrarci i pollici a Winning Eleven. Lui aveva scelto di studiare storia all’università, quindi anche lui rientrava a pieno titolo nella sempre più diffusa schiera dei “110 buoni motivi”, come li chiamo io. Tale definizione è la sintesi di una mia teoria sulle difficoltà di impiego per un laureato al sud, nel caso di Pippo credo che ne sarebbero bastati uno o due dei centodieci motivi per spiegarmi l’esito del suo fallimentare corso. Pippo continuava il suo sconnesso discorso dicendo che senza addurre motivazioni plausibili, avevano scartato due di loro su diciotto a questo fantomatico corso per un call-center di servizi Telecom, guarda caso gli unici due laureati. Io un idea sulle possibili motivazioni plausibili l’avevo, ma l’ho tenuta per me, è una di quelle contemplate nelle centodieci motivazioni di cui sopra, cioè, la motivazione numero due: il laureato ha ambizioni. Per molti datori di lavoro o come li chiamo io i “fustigatori d’ opportunità” gli ambiziosi danno fastidio, fanno domande e talvolta tirano in ballo i diritti. Pippo continuava lo sfogo, io un po’ ascoltavo ed un poco pensavo ad i cazzi miei. Il suo discorso era servito in una salsa dal sapore logoro e deja-vu, quelli della mia generazione possono capirmi e condividere con me la noia che si cela nell’ennesimo pianto di un amico per una delusione lavorativa, succede troppo spesso a troppe persone ed oltretutto io sono un pessimo confidente. Pensavo tra le altre cose a che fine aveva fatto Marco Predolin, il baffutissimo presentatore dopo l’incredibile successo del gioco delle coppie nella seconda metà degli anni ottanta e l’infame e mendace voce che girava tra i ragazzi dell’epoca che lo davano per morto di Aids, si era dato alla macchia della tv italiana. Non so perché mi sia venuto in mente Predolin, ma il pianto di Pippo che i baffi non ha, mi aveva fatto pensare a questo. Dopo aver attaccato, comincio a pensare che forse sia salutare per me vedere uno psicanalista. Pippo poco prima di attaccare minacciava d’ammazzarsi, quindi magari lo psicanalista lo prenoto per due. Io ovviamente non gli ho creduto, anche perche sono fermamente convinto che nell’aldilà non hanno la Playstation e soprattutto non è possibile giocare le nuove versioni del nostro videogioco di calcio preferito. Qualche giorno dopo la telefonata ho incrociato Pippo in un locale, beveva birra e sorrideva ad una biondina.

Blow up (Video progetto) musica di Salvatore Ferraro regia Mario Amura

domenica 4 settembre 2011

Ti dirò di quegli amici di Stefano Havana

Ti racconterò, un giorno, delle notti con gli amici, dei ritorni a casa sotto il limite di velocità, per non farci beccare, per non dover soffiare dentro un tubicino. Ti racconterò di quando urlavamo le canzoni in macchina per sopravvivere all’indecenza di un ricordo: ti prenderò da parte, con delicatezza, con un sottile virtuosismo da sala da ballo e ti racconterò dei gomiti che ci piantavamo nei fianchi quando passava una da otto e mezzo. Ti racconterò di quelle notti, ti racconterò del Filo Oscuro che ci teneva legati tutti quanti, ti dirò che quel certo mal di vivere era colpa tua e tu non capirai. Piegherai la testa da un lato in una maniera che so già mi piacerà e mi chiederai delucidazioni. Allora ti racconterò, quel giorno, delle notti con gli amici, le notti che s’allungavano insieme ai fari della macchina, ti farò entrare, per un momento solo, nei nostri abitacoli e tu ci sentirai parlare e scoprirai che tutto quel casino che stavamo facendo, lo stavamo facendo per te. Ti racconterò della nostra misoginia, delle nostre convinzioni antropologiche di superiorità, ti racconterò delle risate per la creatività delle bestemmie e tu mi darai un colpetto per dirmi: non si fa. Ti racconterò dei primi cassetti delle scrivanie, delle fotografie della Thailandia maledetta, ti racconterò della rabbia che ci siamo raccontati, tutti i giorni, prima di incontrarti, ti racconterò dei “perché” che ci siamo soffiati a vicenda, tra un commento calcistico e l’altro, perché gli amici questo fanno, passano di palo in frasca senza nemmeno rendersi conto del miracolo che stanno compiendo: gli amici si partoriscono a vicenda tutti i giorni. Si ridanno la vita a turno, ecco cosa fanno gli amici. Ti racconterò dei silenzi rotti da qualche stronzata puntuale e tu minimizzerai, dirai che anche tra voi donne è la stessa cosa e allora litigheremo, perché io sosterrò che l’amicizia è una cosa maschile, punto e basta, e tu replicherai che no, che le tue amiche, che le vostre cose, eccetera eccetera, e io proverò a chiuderti la bocca con un bacio, ma tu incrocerai le braccia e reciterai una parte, finché non accadrà qualcosa e finiremo con le lenzuola arrotolate nei pugni e i fiati corti. Ti racconterò, un giorno, di quelle notti lì, quando pensavamo che non ci sarebbe mai più stato un nuovo Amore. Ti racconterò, e tu riderai, dei significati che riuscivamo ad attribuire a un sondaggio di Facebook, dei segnali che leggevamo tutt’intorno; ti dirò di quando i bicchieri si svuotavano uno dopo l’altro e, sempre, puntualmente, il mondo diventava migliore, all’improvviso, come se sul vetro di quel fondo, ci fosse un varco segreto, un passaggio dimensionale, o che so io. Ti racconterò anche questo e tu storcerai le labbra, astemia del cazzo che non sarai altro, e rifiuterai per l’ennesima volta il mio tentativo di iniziazione. Un giorno te lo racconterò, tutto questo, magari seduti da una parte, o che ne so, vallo a dire dove il futuro ci vorrà piazzare; ti dirò i nomi dei miei amici, di quegli amici lì, che sanno stare zitti quando è il caso. Sarà come un appello senza assenti. Ti racconterò del Male che ci siamo fatti, del piacere del dolore, della consistenza di questa maledizione. Ti racconterò dei Montenegro con ghiaccio nei bar di quart’ordine, tra metronotte, cocainomani e rock star stonate; ti racconterò dell’eleganza con cui accettavamo la considerazione che tutti i nostri passati amori fossero andati a stare Meglio, senza noi. Ti racconterò delle occasioni andate perse per l’abitudine al dolore: proverò a spiegarti che un uomo, dopo un po’ che zoppica, va a finire che gli piace. Ti dirò di quegli amici e delle notti che ci capitava di passare insieme. Ti racconterò di noi e tu mi dirai basta, basta così, ci sono io qui adesso, e semmai ti crederò, finché non finirai, anche tu, dentro il primo cassetto della scrivania o nel fondo di un bicchiere. Ma andrà bene così, andrà bene così e saliremo in macchina e rallenteremo pensando che sia per sfuggire agli sbirri, mentre invece sarà l’ennesima scusa trovata per tardare il ritorno e l’impatto coi nostri pensieri e tutto quanto il resto

sabato 3 settembre 2011

Woody Allen



Fui buttato fuori dall'università al primo anno. Mi scoprirono mentre copiavo allo scritto di metafisica. Sbirciavo nell'anima del mio vicino.

(Cit. Woody Allen )

giovedì 1 settembre 2011

Lampadine fulminate (estratto dal nuovo libro Gli Spietati)


Quando non ci sarà più posto all'inferno, i morti cammineranno sulla terra.
(Cit. dal film “Zombie” di George A.Romero)

L’iride dei miei occhi sembra paralizzata, non si contrae. Come una serie di lampadine di natale rotte, come un cuore che non pulsa, come una canzone d’amore che non commuove nessuno, i miei occhi sembrano non rispondere agli stimoli esterni. Non esistono contratti di garanzia per il nostro corpo, la linea è umana, la curva divina. Bisognerebbe custodire con gelosia e rispetto il nostro involucro terreno, rispettarci è una inderogabile priorità. Non esistono centri assistenza: la merce rotta non si cambia. Le fibre muscolari che circondano la pupilla non riescono ad opporsi e proteggermi dai forti colori di questa mattina. La luce penetra nei miei occhi aperti da pochi attimi, sono invasa da un bianco disturbante, violata, penso a mia madre. La luce senza bussare e senza pietà entra fino al centro del mio cervello, brucia i dati, cancella me e quello che ero stata. Arresa, cerco di ergere un ultimo baluardo. D’istinto porto una mano davanti al viso, devo fare ombra, in un goffo tentativo cerco di coprire il sole. Il fuoco del sapere, la luce della conoscenza, accolgo in me senza piacere un candido vuoto. La confusione più totale mi assale, cosa ci faccio qui? Sono distesa in un posto che non conosco, sono persa in un attimo di panico. Stringo gli occhi, batto le palpebre, cerco di guardare bene la mia mano, è cosi bianca, ricorda il colore di una bambola di ceramica: una bambola rotta. Piano, riesco ad abituarmi alla luce, riesco a vedere le vene che tracciano traiettorie lungo il mio palmo. I capillari sono fioriti sulla superficie della mia cute, le vene si fanno spazio sotto pelle, si intersecano nervose, si aggrovigliano e si sciolgono in plastiche forme, non sono mai state cosi visibili, mi tornano in mente le mani di mio nonno. Da bambina amavo i coni gelato, amavo particolarmente quelli al limone venduti per strada  sui carretti, vorrei tornare al mare con i miei genitori, vorrei rivivere l’estate dell’novantotto. Mi sembra tutto cosi lontano, mi sembra tutto cosi remoto, mi sembra tutto cosi impossibile, non sono mai stata molto brava a pensare a ritroso, tantomeno posso definirmi malinconica. Sono pallida, sembro triste, una ragazza sbattuta in fondo ad una scarpata, una donna gettata come immondizia, tra l’immondizia. Sono: un cadavere, una carcassa che aspetta sciacalli ed avvoltoi, forse sono morta e lo scoprirò a breve, tra le urla ed i pianti di chi mi vuol  bene. Forse sbaglio, oppure credo di farlo, sono viva o qualcosa di simile all’esistere ancora, uno stato ibrido, inumano. Constato la consistenza dei mie pensieri mordendomi il labbro superiore, sento lo spessore tra i miei denti, ma nient’altro. Nessun dolore percepito dal mio cervello, nessun messaggio ad avallare l’una o l’altra tesi, mordo con forza e non sento nulla. Oggi davanti a me si è spalancata una porta, oggi io non sono più io, oggi mi dico addio, abbandono il mio vecchio essere, ho la sensazione di galleggiare in un limbo extraterreno. Pensieri sconclusionati si rincorrono nella mia testa, tirano i miei capelli, un pessimismo cosmico prova a farmi lo scalpo, tutto in silenzio e senza dolore.  Perché sono distesa e bagnata sul fondo di una scarpata? Ieri cosa è successo? Provo a fare spazio, come una bambina che cammina a braccia tese nel buio di un corridoio, provo a farmi spazio nella selva e tra le macerie di quelle che furono  le mie consapevolezze. Taglio e scavo, cerco tracce. Lo sforzo preme e pulsa sulle meningi,  l’encefalo e il midollo spinale sono in pericolo. Una luce rossa si accende, provo sconforto, non so se ho più tanta voglia di capire cosa mi sia realmente accaduto. Dimenticare tutto forse mi farebbe bene,  l’unico modo per tornar serena, il solo modo per riconciliarmi alla vita. Il folle desiderio dura un attimo, la volontà di sapere vince su tutto, deformazioni umane. Tutto scorre, questo no. Anche a costo di rompere me, voglio ricordare; continuo ad incastrare cocci. Il prezzo che si paga subendo del male è assorbire quel male senza volerlo, mescolarlo inconsciamente al proprio essere contaminando sempre più la propria anima, non ricordo, ma sono sicura che qualcuno ieri è riuscito nel suo perfido intento. Lentamente nella mia testa, pian piano fluiscono immagini come un esile fiume in un arido letto, con dolore e sgomento rielaboro i primi frammenti dell’accaduto. Il vuoto di memoria non è proporzionale al vuoto della mia anima, non so ancora bene cosa sia successo, ma so cosa ha prodotto in me. Il disprezzo verso la natura dell’uomo cresce, non riesco a credere a quel che è successo, comincio a ricomporre un fotogramma alla volta quel che ho vissuto dopo le ventidue della notte scorsa. Ricordo i fumi della battaglia, i sassi e le urla, ricordo gli occhi in fiamme per i lacrimogeni, il mio viso invaso dal pianto. Ieri era l’inferno in terra o almeno lo era per i miei giovani ed increduli occhi. Per chi non c’era, è difficile spiegare cosa sia successo a Terzigno, è difficile commentare quanto poco valga la finta morale dietro la quale tutti ci facciamo scudo. Aggrondo la fronte, digrigno i denti, li faccio scivolare uno su l’altro cercando dolore: ho fame.

martedì 30 agosto 2011

Piove, governo ladro

Un hobby serve a passare il tempo, non a riempirlo.
( Cit. Psycho di Alfred Hitchcock )
Piove come al solito di Domenica e sono a casa, chiuso nella mia stanza, i confort ci sono tutti e la radio passa una bella canzone dei Rem, “Tongue” per la precisione. Tutto normale, ma fuori piove. La mia stanza è arredata con cura ed è attrezzata contro la noia. Possiedo un esercito potentissimo nella guerra alla noia, ho corazzate di videogiochi, aereonautiche di DvD, marine di cd e fumetti come truppe di terra.  Oggi però sembra vuota ed in penombra, non sembra viva come sempre, ho tutta l'impressione di una prigione arredata a festa. Una prigione è una prigione, anche se fosse poltronatissima con lucine psichedeliche ed un immenso mobile bar, un carcere non sarà mai un posto dove poter fare meravigliosi cocktail con l'ombrellino mentre ci si dondola su  un’amaca. Come al solito sono percorso da una sensazione di déjà-vu che inevitabilmente mi fa pensare e credere che tutto quello che dico o scrivo sia robaccia. “Divaghevole scioglievolezza”, perdersi in trame e sottorame è uno sport che adoro, arzigogolare e filosofeggiare anche sugli argomenti più futili è un piacere per me, è un male per altri. Tornando alla sensazione che volevo descrivere è il senso di solitudine che mi assale nelle giornate di pioggia, ho provato a darmi delle spiegazioni e sono arrivato a convincermi sui motivi della mia metereopatia, che alla prova della coerenza, sembra reggere. Sono a casa e fuori piove, sono triste, perchè? La mancanza di poter far progetti a breve (non so quando finirà di piovere) mi porta inevitabilmente a pensare; mentre nelle giornate di sole, il mio cervello è concentrato sulle scelte (è bello ottimizzare una giornata di sole). L'essere soli in un giorno di pioggia, quindi, non porta la mente alla distrazione, secondo me indispensabile. Essere distratti dai possibili lieti eventi dell'immediato, non ci da la possibilità di pensare alle difficoltà, che affliggono anche l'uomo più fortunato della terra, come: Per quanto vivrò? Chi sono? Dove vado? Lei mi ama? I miei genitori vivranno per sempre? La pioggia scende giù e con lei scende giù anche il mio umore, è una faciloneria pensare questo, ma è così. Scrosta dalle facciate della mia realtà la patina dorata della distrazione e mette davanti ai miei occhi quella parte di essa che in molti chiamiamo: dubbi, preoccupazioni o “pippe”. La pioggia, quindi, scende a dare un parametro alla mia vita, perchè senza momenti di afflizione non riuscirei più ad avere una valutazione critica di quanto mi sono divertito o sono stato bene in un’occasione. Mi spiego meglio, se per assurdo non ricordo cosa si prova nell’essere tristi o preoccupati, non saprò distinguere neanche la gioia ed il divertimento, tutto sembrerà sempre uguale, apatico. La differenza nasce dal confronto, se non posso confrontare due sensazioni diverse come gioia e dolore, le catalogherò inevitabilmente come identiche. I giorni uggiosi sono buoni anche a questo, nessuno riuscirà a vedere una lacrima sotto la pioggia.

Paraculismo didattico

Essere l'ultimo uomo sano di mente sulla terra, significa essere pazzo?
( Cit. Io Robot di Alex Proyas )
Processi mentali miei, tutti miei. Capita di tanto in tanto di guardarsi indietro e pensare: cosa ho combinato di buono? Chi sono stato, per me e per gli altri? Non sempre l'idea che abbiamo di noi si accosta alla realtà, soprattutto la realtà altrui. Un gioco che ultimamente mi capita di fare spesso, quando sono in macchina nei tratti di strada che mi separano dal ritorno a casa, è quello di immaginare, come sarebbe stato il mio percorso di vita cambiando alcune decisioni o magari il riviverle con processi mentali che oggi mi appartengono. Poiché stiamo parlando di utopia, mi limito a raccogliere queste mie riflessioni per una possibile lettera da indirizzare ad uno dei miei nipotini, anche visto l’annuncio di mia sorella della scorsa sera. Il mondo dei giovani si regge su poche e semplici leggi: 1) Vivi bene se sei figo; 2) Sei figo se sei bravo in qualcosa al quale i giovani danno importanza; 3) Se corrispondi ai punti 1 e 2 hai valanghe di figa. Non è un mondo molto complicato e le scalate in popolarità sono velocissime, come i possibili crolli verticali nelle classifiche di gradimento. È un meccanismo semplice ripeto, ma non permette distrazione alcuna, oggi sei ok, domani sarai un deficiente. Gli adolescenti per istinto sono cattivi e menefreghisti stanno con il più forte e non si fanno troppi problemi a voltare le spalle per il proprio tornaconto, non è una critica, siamo stati tutti così, pensandoci bene. C’è un film bellissimo che ci mostra il reale istinto dei ragazzini, cioè l’indole umana senza il filtro della ragione e del buon senso, il titolo è “Il dio delle mosche” (consigliatissimo). In un ipotetico scritto al mio nipotino, quindi, sottolineerei dei punti cardine: “Il primo punto, lo start-up è imparare a giocare al calcio: cerca un ruolo in cui non c’è troppa concorrenza, ti permetterà di giocare sempre, anche se non sei un fenomeno. Dalle elementari alle medie sei un re, se giochi titolare in una squadra, conquisti il rispetto dei tuoi compagni e qualche sguardo languido da parte delle amiche di classe. Secondo punto: alle superiori abbraccia uno strumento, vale lo stesso discorso del calcio, scegline uno poco inflazionato e che ti dona un’aria più misteriosa, i chitarristi si buttano, scegli il basso. Terzo punto: sì cortese con tutti, ma mai troppo partecipe alle attività di classe, fai in modo che tu non abbia una chiara collocazione in un ambito di schieramenti. Infatti, alle superiori il discorso è contorto, l’equilibrio è più arduo ed instabile su una corda poco tesa, la parola d’ordine è misura. Misurare, ogni tuo intervento, è necessario per riuscire ad essere convincente con le diverse fazioni, le distinzioni di gruppo diventano più nette e spesso ti chiederanno: ”Da che parte stai?” Principalmente l’intenzione comune è la voglia di leggerti in viso, nei vestiti e lungo il tuo slang, chi sei; non dargli questo vantaggio. A 15/16 anni sei bianco o nero, non esistono sfumature. Io ti consiglio di essere gentile con tutti e di continuare a mantenere un’area distaccata ma allo stesso tempo credibile. Opta per un’efficacissima parvenza di stralunatezza, dopo un po’ troverai sostegno e crederanno in te, anche se non ti sentiranno mai parte integrante del gruppo, ma questo non è detto che sia un problema, anzi potrebbe essere un vantaggio. Se vuoi che ciò accada, devi riuscire a capire la loro lingua e i loro interessi, quindi leggi, leggi molto e senza distinzione. Evita come la peste, la vita politica pseudoscolastica, t’imprigionerebbe, frequenta gli sportivi, gli alternativi e anche i fighetti indistintamente, c’è del buono in ognuno di loro e ti spiegherò anche il perché: Gli sportivi t’insegneranno ad avere rispetto per il tuo corpo e ti aiuteranno a tenerti in forma. Non dimenticare che lo sport è un gioco e giocare fa bene a tutte le età, oltre al fatto che ti daranno un peso e una misura per non cadere in eccessi tipici degli adolescenti, come droga ed alcool. Gli alternativi forse sono la parte più divertente, ascoltano buona musica, si fanno delle gran suonate e cominciano a fare sesso prima di tutti, ma attenzione!! Hanno le peggiori ragazze di tutte le fazioni, nel senso che un maschio trascurato e misterioso può anche andar bene, senza esagerare, ma le ragazze incupite da trucchi nerissimi, mal vestite e con gli occhi rossi, sono un’offesa alla gioia di vivere e alla bellezza che accompagna l’essere donna, di tanto in tanto c’è qualche lieta sorpresa. La terza categoria è una categoria con cui bisogna agire con le pinze, i fighetti: esseri intransigenti! Sono quelli che spesso ti rimprovereranno di interagire con le altre fazioni, però le loro uscite sono le più patinate ma allo stesso tempo quelle dai contenuti più deboli. Vuoi mettere una birrozza e una chiacchiera sul calcio con gli sportivi o una birrozza e una discussione sui Rolling Stones con gli alternativi, rispetto a una biretta e una discussione su telefonini e scarpe con i terzi? Anche questo gruppo, però, ha i suoi pregi; hanno le ragazze migliori, conoscono ed entrano nei locali più belli e con loro muoverai prima il culo dalla tua città, sono molto attivi per vacanze e gite fuori porto! Ribadisco, non schierarti e quindi cerca di prendere il meglio da ogni gruppo, cercando di dare il giusto rispetto ad ognuno, che come vedi meritano per un motivo o per l’altro. Se riuscirai a fare questo all’università, sarai un semidio in terra, perché non si sa per quale groviglio psicologico, in quest’ambito le diverse fazioni si amalgamano in gruppi misti. L’interesse e le competenze sviluppate nel corso degli anni da ognuno, fanno comodo alla vita comune universitaria, quindi qui potrai dar sfogo a tutto quello che hai appreso, sarai il collante perché parlerai tutte le diverse lingue. Se riuscirai in questo, ricorderai quei 5/6 anni come un momento di splendore e di divertimento puro. Sarà la prima volta per un monte di cose e le prime volte sono le migliori!!”

Sciroppo maniac (Photoshop che passione vol.1)

La regola del sospetto

Mi diceva: "Ti porterò sempre nel mio cuore". Non sono diventata medico perché, durante l'esame di anatomia, sostenevo che il cuore umano è composto da cinque cavità: due ventricoli, due atri ed una prigione.
Alice guarda i gatti ed i gatti guardano le alici, cantava un comico in Tv. La mia fidanzata guarda me, studia i miei movimenti, cerca la prova schiacciante. La regola del sospetto è la sua autodifesa. Esempi esplicativi della regola: se squilla il vostro telefono, è un’amante, se siete in ritardo di quindici minuti, avete avuto un incidente mortale o siete scappati con una polacca, se una sera siete stanchi e non avete voglia di uscire, non l’amate più. La regola del sospetto è tanto semplice quanto efficace, fa cadere il proprio partner in uno stato ibrido, tra l’autistico ed il pupazzo del detersivo coccolino concentrato. L’uomo però si sa, è duro a morire. Impara a conoscere le traiettorie giuste, evita le zone d’ombra, comincia a parlare in maniera ovattata ed a camminare con fare felpato. L’uomo sviluppa poteri inimmaginabili, la strada tortuosa e lastricata di ostacoli forgia esseri capaci di sentire il pericolo a km di distanza e sempre pronti ad evitare le trappole anche nelle situazioni più ardite. La mia fragile ed amatissima Alice è una persona: gioiosa, solare, piacevole, disponibile con tutti. Con me no, io sono l’indiziato, nulla mi rende colpevole, nulla mi scagiona, in poche parole, un cane che si morde la coda. La cosa più amorevole che mi dice è: Quanto sarebbe bello non amarti, soffrirei meno. L’amore fa male? Io sono contento di amare Alice e la sopporto, lei è scontenta di amare e si diletta a fare processi alle mie intenzioni. Una donna ama troppo, forse è questo il punto. La grande confusione a mio dire non è da ricercare nella parola “amore”, ma nella confusione che genera il sentirsene vittima e non prescelta. Vivendo un sentimento grande ed incontenibile per un cuore di poco più di un kg di peso, si genera nella maggior parte dei casi una gran confusione. Parlo per intenderci del sentimento smodato inventato da poeti e registi ad uso e consumo di quello che fu il sesso debole. Il sentimento descritto in maniera impeccabile nelle melense favole di ieri e nelle stupide fiction di oggi, è artefice dell’ odierna infelicità femminile. La confusione a mio dire è generata dalla voglia di dare forma a qualcosa che per sua natura è intangibile, quindi a farne le spese è quello che nella testa delle donne è la rappresentazione, il contenitore di quel qualcosa: il loro fidanzato. Quindi, l’opera artistica avviene sul poco argilloso e modellabile corpo dell’amato, confondendo quello che è un proprio disagio con amore smodato. Dopo numerosi tentativi e dopo aver preso coscienza che l’argilla è facile da modellare solo per Dio e la protagonista del film “Ghost”, le donne passano alla seconda fase, che io chiamo “patrie galere”.  Anche nella seconda fase parliamo sempre di confusione, ma questa volta si confonde l’amore con il possesso. QQuello che lei definisce “voler stare sempre assieme” non è neanche in questo caso amore smodato, ma una fase di studio e controllo serrato. Presto anche lei sarà stanca della seconda fase, l’abbandonerà con fare molesto e scontroso. Questo non è altro che il preludio all’ultima e definitiva fase, come una crisalide che finalmente diventa farfalla si passa alla teoria di cui sopra: La regola del sospetto. Si entra nella terza fase e ci si resta a vita o fino a quando si riesce a resistere ad un processo lungo e pieno di test. Le nostre amatissime compagne a malincuore si renderanno lentamente conto di non poter dare forma al loro irreale progetto d’amore, sopratutto capiranno tra le urla che una persona può essere amata ma non posseduta. Il resto della nostra amabile vita, con la nostra amabile compagna, sarà un continuo difendersi da lei che cercherà un modo per giustificare i suoi precedenti tentativi falliti, ovviamente cercando in voi le cause. Il suo strumento di supplizio mentale sarà la “regola del sospetto”.

Sulle donne

Tu sei inerme, ti trastulli con i sogni, ti lasci cullare dolcemente da quelli che sono i tuoi più nascosti desideri. Lasci che i cancelli della tua mente si aprano e facciano passare tutto ciò che, ad occhi aperti, non hai il coraggio di vedere, le tue fantasie, ciò che ti fa sentire bene. Ora dormi, rivolta verso di me. A intervalli irregolari ti muovi nel sonno, riesco a percepirlo, ormai sono diverse ore che ti guardo. Osservo i movimenti del tuo corpo, li interpreto, cercando di capire ciò che stai sognando. Ad esempio: mi piacerebbe sapere come mai, alle volte, dischiudi lentamente le tue labbra e tenti di pronunciare una parola. Ma talmente debole è il tentativo, che questa sembra venire inesorabilmente inghiottita dalle profondità del sonno. Sembra quasi che Morfeo in persona ti stia accarezzando, ti stia plagiando, che il suo tocco gentile stia manipolando la dura argilla di cui  sei composta. Che abbia quindi il potere di trasformare il vile metallo in oro?

Con Alice

Penso che la vita a due non sia un “qualcosa" che vada bene solo perché due persone si amano, è un processo molto più complesso, un continuo impiego di energie che in più occasioni mi sono chiesto se sia lecito investire. Tutto va bene finché è tutto tranquillo, il primo sbaglio da parte di uno dei due e comincia la salita su di una pista oliata. Gli errori innescano meccanismi di compensazione che portano ad inevitabili ed impettiti permessi e licenze d’uccidere (l’amore). La rabbia porta nebbia. Quando passata la prima fase d’innamoramento e di grande coinvolgimento, subentra la routine e le energie vengono più spesso indirizzate al di fuori del rapporto. Permettere alla rabbia di offuscare i ricordi e il cominciare a vedere il proprio amato/a come un ostacolo al proprio essere, è l’inizio della fine. Su come far andare bene le cose, sui problemi che le persone possono avere insieme e sui dubbi che ciascuno si porta dentro, non c'è giorno che non sia pubblicato un articolo, non se ne parli in tv o alla radio. Troppa sicurezza, poca voglia di far fatica. La presunzione di farcela da soli è solo uno degli errori in cui più facilmente si cade. Si potrebbe analizzare con attenzione, ripercorrendo la storia e poi ripartendo dai momenti belli, ma, ovviamente credo che sia un lavoro inutile; meglio guardare “Operazione paura” di Mario Bava. Io come tutti ho problemi con la mia donna, quindi quello scritto sopra è un modo come un altro per esorcizzare le mie perplessità. Lei mi chiede sempre: “Come va?” Io rispondo secco e garbato: “Liscio come l'olio”. Spesso ci chiediamo troppe cose che entrambi sappiamo. Quello che ai più può sembrare una domanda, spesso alle nostre orecchie suona come una sentenza o una dichiarazione di guerra. Ponderare le risposte è prendere tempo sono le regole del gioco, di solito, ci guardiamo e pensiamo di studiarci a vicenda. Liscio come l'olio: che cavolo significa? Lo dico spesso, ma ignoro cosa io voglia dire.”Come va?” Mi ripeti. Le tue domande spesso sono una semplice informativa sul tuo sapere, la risposta che ti aspetti non è altro che un avallo alle tue tesi. Mi ostino a ripetere la stessa frase, è il mio timeout nell'ultimo 4°. Metto in pausa le mie paure, le nostre incertezze, i mille dubbi. Sono le sei circa di una tranquilla domenica pomeriggio abbastanza soleggiata con un lieve e dolce vento caldo, poche ore sono intervallate dal nostro ultimo litigio, il naturale seguito, probabilmente, avverrà poco prima di cena. Sono solo a casa e nonostante il bel tempo mi sento un po’ stanco, forse a causa delle poche ore di sonno della notte precedente. Mi metto comodo, bevo un caffè, fumo una sigaretta, leggo un po’. Mi sento strano non riesco a concentrarmi, socchiudo gli occhi voltandomi e rivoltandomi. Il sole sta per calare e l’aria si fa ancora più limpida mentre il cielo assume quelle sfumature tipiche del tramonto. Ed io intanto, pur essendo circondato da tutti i comfort domestici, non riesco a trovare nulla che mi distragga o almeno che lo faccia per più di qualche secondo. Continuo ad agitarmi. Riempio la vasca da bagno con acqua non troppo calda, quasi fredda come cercassi uno shock per calmare questo mio stato, qualcosa che generi una reazione e mandi via dalla mia mente e soprattutto dal mio corpo l’assurda voglia di una presenza inquieta che detronizzi la monotona stasi che mi avvolge. I pensieri ed i ricordi che galleggiano nella mia mente sono alghe alla deriva, mi bagno ed intanto fantastico intorno al come non vorrei essere solo in questa vasca da bagno. Sarà il plenilunio, folli pensieri, parole vere, ma mi manchi. Non rimandare a domani, mi diceva sempre la mia mamma, e se domani fosse un giorno eccezionale? La paura dell’ignoto è un salto nel buio fatto con le pantofole. Tutti canticchiamo vecchie canzoni, spesso per sfogare rabbie e rancori. L'essere complessi è nella natura dell'uomo, l'essere complessi è la rovina dell'uomo. Mi alzo dalla vasca, ti chiamo e rido, tu provi ad arrabbiarti, ma alla fine cominci a ridere. Non so cosa vuol dire, tu odi quando lo dico, allora vorrei capire perchè continuo, dimmi perchè ne sono ossessionato, intanto nella mia mente riecheggia: liscio come l'olio.


Non è la rai

Gli anni passano in fretta, basta una decade e nessuno ti riconosce più, a dirla tutta neanche io mi riconosco più in questo specchio. Le nuove generazioni neanche ricordano cosa sia stato per gli adolescenti degli anni novanta “Non è la rai”. Le orde di ragazzini impazziti e sbavanti fuori ai cancelli, tutti pronti a rischiare di essere schiacciati per un autografo o per una sbirciata nelle nostre acerbe scollature, altri tempi, altra me. Ora seminuda in questo specchio, mi palpo il seno sinistro, sembra aver perso consistenza negli ultimi mesi, lo vedo come svuotato, sicuramente più cadente.  L’angoscia mi assale, sono in paranoia, provo le nuove calze contenitive arrivate oggi in negozio, dovrebbero ridarmi la piattezza addominale di un tempo e il giusto sostegno dove serve. Non mi piaccio più, eppure una volta mi adoravo tutti ed io andavo in visibilio per le folle deliranti, quante seghe catodiche saranno state consumate con me protagonista? Nuda, continuo a litigare con i collant, ad ogni movimento vedo penzolare in maniera evidente le mie tette, mi sembra di guardare un'altra, una donna che non mi piace. Ora che ci faccio caso, i miei capezzoli sembrano essere diventati più scuri. L’illusione di essere una star della Tv, l’ho covata per vent’anni, una partenza lampo, il successo, poi…la discesa verticale. Dopo “Non è la rai” c’è stata poca roba, le successive piccole apparizioni in televisione mi sono costate pompini ed autostima. Quante bocche bavose a succhiare dalle mie mammelle, quante lingue hanno frugato dentro di me? Non lo ricordo più, hanno consumato la mia bellezza ed inaridito il mio animo. Nonostante tutto, ho continuato a volermi bene, ho preferito odiare gli altri piuttosto che me, io ero solo schiava di un sogno, vittima di un’illusione. Quando ho capito che non avrei mai sfondato in tv ho cambiato rotta, giusto in tempo, poco dopo essere stata sfondata per l’ennesima volta, dall’ennesimo impresario. Gli uomini li odio, ho deciso di sfruttarli, di scucirgli cose più concrete di un passaggio televisivo. Ora ho un negozio d’intimo in centro a Roma, ad occhi chiusi e cuore spento ho fatto cassa. Persa nei ricordi, torno in me, sono riuscita a calzare i miei collant, sembrano funzionare, il mio umore quotidiano sembra virare verso il moderatamente buono. Mi guardo e penso: si sono ancora io, un gran bel zoccolone. Piaccio ai ragazzini, e adoro piacergli, mi diverte provocarli, fargli credere di avere qualche possibilità. Per stare con me non ci sono tattiche, basta pagare, pagare tanto. E’ tempo di tornare in negozio, comincia l’orario caldo di metà mattinata, ma attrezzo psicologicamente ad accogliere clienti. Ieri è stato il giorno dell Epifania, io sono uscita a cena ed ho scopato con un amico di un amico. Il cretino ha promesso di portarmi in crociere sul Nilo, speriamo. Sento il campanello, qualcuno è entrato in negozio. Una vecchietta sporca e vestita da Befana sulla porta del mio negozio, che vuole? Mi avvicino con fare cortese, devo mandarla via. Penso: sarà una vecchia pazza, sicuramente una squilibrata in ritardo di un giorno con il suo lercio vestito da carnevale. Mi avvicino sorridendo, ma non ho il tempo di esclamare neanche una sola parola, riesco ad emettere solo un gemito. Vedo come al rallentatore la figura dell'anziana signora scagliargli contro di me stringendo un coltello. Sento uno strappo al collo e caldo al petto, un liquido caldo cola sulla mia camicia. Mi vedo dall'alto, un'anima astrale, senza rimpianto e senza dolore guardo il mio corpo disteso a terra in una pozza di sangue. Cara Befana sono stata cattiva: ma non bastava il carbone?  

lunedì 29 agosto 2011

Link dell'editore del mio libro "la morte del disicanto"

La recensione del mio libro su Cnn Italy

La morte del disincanto di Salvatore Ferraro